venerdì 28 gennaio 2011

Vera svolta? La Lega vicentina va a congresso

Finora la Lega Nord è stata un partito con una sola legge: Bossi ha sempre ragione. La ferrea e adorante obbedienza al Senatùr, unita alla progressiva, vistosa espansione di potere negli enti locali, nelle società pubbliche e nelle fondazioni bancarie, ne ha fatto una sorta di neo-Dc in salsa leninista. Ma dietro la facciata di granitica compattezza, da anni si è sedimentata e incancrenita una realtà ben diversa: dai vertici giù a cascata fino all’ultimo circolo territoriale, si combattono feroci guerre per bande, fra ras e capi-bastone che si contendono e spartiscono tessere, cariche, candidature e poltrone.

Guerra per bande
Il congresso provinciale che, salvo sorprese e rinvii dell’ultimo momento, dovrebbe tenersi domenica 30 gennaio in Fiera a Vicenza ne è un esempio: da una parte l’ex presidente di Vi-Abilità Carlo Fongaro, uomo dei leghisti della prima ora, il fronte Stefani-Schneck-Bizzotto; dall’altra Maria Rita Busetti, sindaco di Thiene, candidata ufficialmente dall’assessore regionale Marino Finozzi ma dietro alla quale sta la dama di ferro Manuela Dal Lago (appoggiata anche dall’onorevole Lanzarin, di Rosà). Vicino anche se non “organico” a quest’ultima l’attuale segretario provinciale del partito, il deputato Paolo Franco, mentre è più isolata e incerta la posizione del senatore Alberto Filippi, che ha rotto da tempo con Stefani. Ognuno di loro ha un pacchetto di voti che può ballare e passare da una fazione all’altra fino a dieci minuti prima delle votazioni. Il fatto nuovo è costituito dall’insurrezione alla cui testa s’è messo Davide Lovat, responsabile degli enti locali. Lovat è uscito allo scoperto e al grido “abbattiamo i signorotti feudali delle tessere e delle poltrone”, ha lanciato l’attuale vice di Franco con delega proprio al tesseramento, Roberto Grande. I “rottamatori” in camicia verde, nella guerra per il comando in Veneto, sono schierati con Zaia e Gobbo, come lo sono Dal Lago & Co (mentre Stefani e soci stanno con Tosi, in odore di eresia per il suo atteggiamento, con tutta evidenza un messaggio politico, ostentatamente favorevole al 150° dell’Unità d’Italia, bestia nera dei leghisti di stretta osservanza bossiana). Punti qualificanti della ribellione: via gerarchi e gerarchetti, basta col “partito degli affari”, ritorno al venetismo delle origini, maggiore sensibilità ai problemi sociali. C’è un sospetto: che le truppe cammellate dell’alleanza Dal Lago-Finozzi-Lanzarin (e forse Franco) convergano sui descamisados di Lovat e Grande, manovrandoli a loro insaputa o mettendosi d’accordo sottobanco, per sconfiggere gli avversari della corrente Stefani e assumere il controllo del partito spartendosi il bottino di incarichi e candidature per le elezioni provinciali, comunali e parlamentari.

Vizio d’origine
Tuttavia un’apertura di credito, ai ribelli, va data. Al netto di accordi più o meno verosimili e più o meno opaci, sempre possibili nel contesto di un congresso che è l’occasione principe per ridefinire i rapporti di forza interni, la decisione di dare voce agli umori di rivolta che covano da tempo sotto la superficie è senz’altro meritoria. Il Carroccio berico riflette su scala locale la malattia che corrode dall’interno una forza politica che fino ad oggi è riuscita a comprimerla e a tenerla nascosta grazie al carisma di Bossi, e al consuetudinario “centralismo democratico” che la fa assomigliare molto, troppo, a una caserma: questa malattia si chiama assenza di democrazia interna. E’ vero che le cariche avvengono tramite elezioni dal basso, ma sono gestite da gruppi di potere riuniti intorno a pochi maggiorenti, sempre gli stessi, i quali trovano la propria reale legittimazione nella benedizione superiore del monarca assoluto Umberto Bossi (che si dice sia ostaggio di un “cerchio magico”, una conventicola di gerarchi che come Bormann con l’Hitler rinchiuso nel bunker detiene l’esclusivo privilegio di decidere quali informazioni e quali personaggi possono avere accesso al Capo).

Il vizio d’origine del partito padano sta tutto lì: nell’organizzazione piramidale e dittatoriale, con cadenze congressuali regolari e litigiose ma pilotate per sfoggiare una parvenza di pluralismo. Nel momento storico che stiamo vivendo, il trapasso fra una Lega in tutto e per tutto identificata nel mito dell’Umberto e una classe dirigente fra cui individuare il successore, non è così lontano. A differenza del Pdl, evanescente creatura di marketing che è nata e che morirà con la morte politica del suo creatore, Silvio Berlusconi, la Lega Nord ha allevato e formato sul terreno amministrativo e tramite un robusto apparato sul territorio dei quadri che, com’è ora che avvenisse, adesso si fanno avanti e scalpitano per afferrare il bastone del comando.

Rivolta vera?
Comprensibile che in tale fase di passaggio, come fanno anche i Lovat e i Grande, ci si mostri ossequiosi verso l’autorità suprema di Bossi, dato che il Senatùr può spazzarli via da un minuto all’altro, sol che lo volesse, con appena uno smorfia di disapprovazione. Tuttavia se a Vicenza andasse in porto il tentativo di scalzare con il puro, caro e semplice voto le vecchie oligarchie locali, tutte quante, da Stefani alla Dal Lago compresi sodali e figliocci, sarebbe un avvenimento storico, una novità assoluta. Sarebbe forse il primo colpo di piccone all’autoritarismo, ormai decrepito, imposto dal padre-padrone Umberto. Ma questa rivolta ha davvero come scopo la rigenerazione politica e morale del leghismo su basi democratiche, o è solo l’incursione di una diversa congrega destinata a cristallizzarsi in ulteriore banda che insegue posti e prebende? Quali sono le prospettive che i ribelli hanno in mente per rifondare una Lega appiattita sul berlusconismo, attaccata a troppo caréghe, beccata più volte con le mani nel sacco della corruzione, diméntica del no alla globalizzazione causa e ragion d’essere della sua esistenza, ipocrita nell’accampare pretesti per giustificare l’impossibilità di federalismo che non arriva e forse non può arrivare mai? E quando sarà l’ora, se saranno in condizioni di farlo, avranno la volontà di mettere in discussione i diktat del generalissimo Bossi e dei suoi colonnelli Maroni, Calderoli e compagnia brutta? Ad aspettarli al varco ci sono quegli “ex”, fuori dal partito ma ancora in cuor loro leghisti, che se ne sono andati o sono stati cacciati proprio perché avevano osato dissentire dell’unica, sovietica “linea” ufficiale.

Alessio Mannino
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sabato 15 gennaio 2011

Bene il monsignore, male il Vaticano

I cattolici dovrebbero essere gli alleati naturali di chi non si rassegna a concepire e vivere la vita in termini esclusivamente materiali ma sente il bisogno di riscoprirne il valore spirituale. Sappiamo bene che il gregge dei fedeli, invece, tranne una minoranza di veri cristiani degni di questo nome, si contenta di un facile auto-ammonimento a non cedere alle sirene del consumismo. Una penitenza che dura il tempo della messa domenicale e si corrompe e interrompe al prossimo giro di shopping. Complice una Chiesa romana che, pur battendo sovente il chiodo della malvagità intrinseca al vuoto materialistico su cui si basa la civiltà del “benessere”, nei fatti non va al di là della pastorale generica e si guarda bene dall’attaccare frontalmente le cause che la originano e i meccanismi che la regolano, ovvero la diabolica crescita economica illimitata e la logica del massimo profitto (la scintillante durezza della Rerum Novarum, anno 1891, è purtroppo un ricordo preistorico).

A maggior ragione, dunque, vanno apprezzate come preziosissime pepite d’oro nel flusso delle banalità ridondanti quei moniti che non lasciano dubbi su quale sia, o meglio quale dovrebbe essere, la posizione di un cattolico autentico nei confronti del pensiero unico consumista-produttivista. Come ormai ogni anno, in questi giorni divampa la polemica sulla legittimità morale di tenere aperti i negozi anche durante giornate festive come quella di ieri, giorno dell’Epifania, o di domenica. Ebbene, giungono come un balsamo le parole di monsignor Fabiano Longoni, delegato del patriarca di Venezia per l’azione sociale, il lavoro e la giustizia, che così si esprime: «Critichiamo continuamente le imprese cinesi che hanno registrato vertiginosi aumenti della produzione facendo lavorare i loro dipendenti dodici ore al giorno, tutti i giorni. Poi ci comportiamo allo stesso modo chiedendo ai nostri lavoratori di tenere aperti i negozi anche durante le feste. Non possiamo distruggere il nostro sistema di regole appiattendoci sulla globalizzazione» (Corriere del Veneto, 6 gennaio 2011).

Mettiamoci d’accordo con noi stessi, è l’invito di don Longoni: o restiamo fedeli alle nostre abitudini e a quel che resta delle nostre esangui tradizioni, oppure ci “cinesizziamo”, ovvero imitiamo il modello più estremo di globalizzazione degli stili di vita, e così facendo ci danniamo con le nostre stesse mani. Il prelato non le manda a dire, e le dice chiare: «Una vita e una società fondate sul consumo non hanno senso: la persona deve essere sempre al centro e le regole del lavoro devono essere in equilibrio con i diritti dei singoli».
Parole sante, è il caso di dirlo. Naturalmente pronunciate da un’angolazione religiosa, per cui l’esigenza di una pausa temporale è sentita come necessaria a «dedicarsi a Dio, stare con la propria famiglia e aiutare i fratelli che hanno bisogno di noi: i malati, i poveri e gli emarginati». Ma la consapevolezza di un declino morale è la stessa, identica quanto a urgenza interiore, che può nutrire un laico. Ed è la coscienza che se neppure si tengono questi ultimi deboli argini contro l’ansia da fatturato «la nostra società si disgregherà completamente». E il monsignore, coerente con una fede che deve parlare all’anima e non solo di “problematiche” alla moda, fa una riflessione che spazza via ogni concessione al politically correct troppo spesso sulla bocca di certi devoti: «Facciamo le battaglie in chiave ecologica per non distruggere l’ambiente, per non consumarlo o devastarlo. Bisogna imparare a fare anche delle battaglie in difesa dell’ecologia umana trovando il tempo per i propri cari e i bisognosi. Il consumo non è un dio che dispone degli individui».
Capita la lezione?

È il tempo il bene più grande, che deve servire a ciò che realmente siamo: esseri umani, cioè fatti di passioni, affetti (e solidarietà, immancabile nell’ottica cristiana). Cattolici, perché covate fra voi questi nobili pensieri e poi ci ritroviamo fra i piedi i Ruini, i Bagnasco, i Fisichella e la marmaglia di politici che seguono la dottrina di Santa Romana Chiesa solo per specular voti, privilegi di casta e affari? Forse perché i Papi hanno calato la sottana al fatto compiuto del secolarismo di Wall Street e non sanno e non vogliono essere seguaci di San Francesco, e neppure del pagano umanesimo rinascimentale di un Giulio II (che Dio l’abbia sempre in gloria)? Amen. Anzi: amen un corno.

Alessio Mannino
da www.ilribelle.com del 6 gennaio 2010
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martedì 4 gennaio 2011

Onore all'ingrasso

Provo grande tristezza e molta rabbia per la fine violenta di Matteo Miotto. Un ragazzo di 25 anni è morto, ucciso in una guerra non sua. Una guerra che vede noi occidentali esportare la nostra democrazia (ovvero a proteggere i nostri interessi geostrategici e soprattutto quegli degli Usa) a suon di bombe teleguidate e attacchi mordi e fuggi. In un Paese governato da un presidente Karzai corrotto, ammanicato con il mondo della droga e spalleggiato dagli americani. Un presidente che senza i pretoriani di Nato & friends sarebbe tirato giù dalle spese in pochi minuti da una popolazione che lo detesta. Chissà se l'indignazione vera, ostentata o professata dalle nostre parti, a Zané come a Thiene, come a Vicenza è pari solo ad un granello di quella provata dai familiari di quella ragazzina cui è stata staccata la testa da una pattuglia italiana durante un tragico, diciamo così, incidente, nel settembre del 2009.

Lo scrittore Massimo Fini allora bollò come «cinismo ributtante» la spiegazione di Marco Bertolini all'epoca dei fatti capo di stato maggiore della missione Isaf. Queste le parole che da un soldato vero non dovrebbero mai uscire: «Gli afghani sono abituati a questi incidenti, purtroppo. Qui le armi fanno parte del paesaggio. Un incidente provocato dalle armi è come da noi un incidente stradale». Si capisce che non ci crede nemmeno lui, lui che per primo sa bene che le guerre di oggi non hanno nulla di quella tremenda e per certi versi sublime connotazione che potevano avere prima della rivoluzione industriale, priva cioè che il fatto bellico divenisse per sempre una spa della morte con profitti dividendi. E con fallimenti caricati sulle spalle dei civili. Ancora Fini in un suo memorabile articolo del maggio 2009 scriveva: «L’altro ieri i bombardieri dei nostri alleati americani hanno raso al suolo due villaggi facendo 150 morti, in maggioranza vecchi, donne e bambini. La vicenda afgana è puntellata, quasi quotidianamente, da stragi del genere, solo che in questo caso la Croce rossa internazionale ha potuto documentarla e denunciarla. La giustificazione degli americani è sempre la stessa: in quei villaggi si erano rifugiati dei guerriglieri talebani facendosi scudo della popolazione. Due osservazioni. I guerriglieri (manipoli di tre, quattro persone al massimo) non potrebbero rifugiarsi nei villaggi se non avessero l’appoggio della gente che vi abita, altrimenti sarebbe questa, per prima, a farli fuori sapendo i rischi che corre. Seconda. Se si vogliono prendere dei guerriglieri rifugiatisi in un villaggio si mandano fuori delle truppe di terra a rastrellarlo. Ma gli americani (come gli italiani nel caso della Toyota) non vogliono correre nessun rischio. Ma il combattente che non combatte perde ogni legittimità. In guerra l’eccezionale legittimità ad uccidere deriva dalla possibilità di essere, altrettanto legittimamente, uccisi. In Afghanistan questa reciprocità non c’è. Gli eserciti della Nato stanno asseragliati nelle loro basi e bombardano, possibilmente con aerei fantasma, i Dardo e i Predator, senza pilota, telecomandati da Nellis nel Nevada. Si esce così dall’ambito della guerra e si entra in quello dell’assassinio, non solo quando si uccidono civili ma anche guerriglieri».

Ad ogni buon conto in questi giorni si ammassano nella mia casella di posta elettronica le polluzioni patriottarde dei nostri politicanti. Ecco due esempi di miseria e ipocrisia nelle quali gli italioti, arrivati alla 150esima portata, riuscono a primeggiare egregiamente: «... Un giovane che aveva veri valori di riferimento: prima di tutto la patria, il senso del dovere, e il senso dell'onore per la nostra bandiera. Matteo era impegnato per portare solidarietà al popolo afghano e soprattutto per porre le basi affinché quella nazione possa vivere pienamente in democrazia. Non ha arretrato di fronte alla possibilità di morire e per questo ci onora, onora la nostra Nazione, e noi lo consideriamo un nostro eroe». Nicola Ceretta, consigliere provinciale del Pdl e leader di "gippe.it". «Esprimo il profondo cordoglio del capoluogo per questo figlio di Vicenza caduto sul fronte. Un’altra vita, troppo giovane, si è spezzata sul fronte della guerra al di là delle valutazioni più alte e urgenti, che non spettano a un sindaco ma alla politica nazionale, voglio solo consegnare ai familiari di Matteo Miotto, e a tutto il corpo degli alpini che tanto è caro a questa terra, l’abbraccio e il pensiero di tutti i vicentini in questo momento doloroso». Achille Variati del Pd, sindaco di Vicenza. Pur da schieramenti diversi i due dicono la stessa cosa. Ma quando la pallottola partita della squadra italiana ha staccato la testa ad una bimba afghana loro non hanno scritto una riga. Allertare il loro ufficio stampa non aveva senso, anzi costava troppo. A tutti i Variati e a tutti i Ceretta di turno, siano essi amici di Gasparri, Veltroni o Di Pietro ricordo se ce ve ne fosse bisogno che noi italiani abbiamo ben poco da alzare la cresta visto che due sono state le ultime guerre e in tutti i due casi abbiamo cominciato da una parte e finito dall'altra. Che sia Franza che sia Spagna... basta che se magna.

Marco Milioni
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