mercoledì 22 dicembre 2010

La casa di vetro coi vetri appannati

«Le amministrazioni rendono noti, mediante inserimento nelle proprie banche dati accessibili al pubblico per via telematica, gli elenchi dei propri consulenti indicando l'oggetto, la durata e il compenso dell'incarico». Così recita l'articolo 34 comma secondo del decreto legge 223 del 4 luglio 2006. Si tratta di una norma voluta dall'allora governo di centrosinistra capitanato da Romano Prodi. La novità fu accolta molto favorevolmente da gran parte della politica e dalle associazioni degli utenti nonché dei consumatori. Al comune di Vicenza però lo spirito del decreto è stato disatteso. Dagli elenchi manca completamente la frazione del 2009. Infatti su 55 incarichi censiti solo due rispettano alla lettera il dettato del decreto poi convertito in legge. Da parte sua però la giunta di centrosinistra si dice «già al lavoro per colmare la lacuna».

LE CIFRE. Secondo i tabulati inseriti sul sito del comune di Vicenza gli incarichi di consulenza affidati nel triennio 2007-2008-2009 (quelli per i quali è possibile ed è dovuto dare conto) sono 55. All'appello però mancano tutti gli incarichi del 2009. Per di più l'amministrazione dovrebbe rendere anche disponibili quelli dell'annata in corso che sta per chiudersi, anche se non si sa se gli uffici ultimeranno la pratica col chiudersi dell'anno solare o solo dopo l'approvazione del bilancio consuntivo per il 2010.

Rispetto ai 55 record forniti però solo due contengono il nome, l'importo e la natura della consulenza. Si tratta della nomina dell'avvocato Daniele Sterrantino del foro di Roma come «quale arbitro del comune per la risoluzione di qustioni economiche tra comune di Vcienza e Aim trasporti». La cosa singolare però è che l'altro record completo è quello in cui si revoca l'incarico allo stesso legale. Per cui in realtà il numero delle consulenze calerebbe a 54; nessuna segnalata in modo regolare.

Tra i nomi cui viene affidata una consulenza senza indicazione dell'importo c'è quello del blasonato professor Vittorio Domenichelli, tra i luminari del diritto amministrativo in Italia. Tra gli altri ci sono incarichi alle psicologhe Giuliana Fabris, Daniela Martini e Maria Giovanna Corradin. Con loro figura un incarico nell'ambito della protezione civile all'ingegnere bassanese Luigi Lago. All'avvocato Alfredo Bianchini invece viene conferito un incarico speciale per dirimere la questione relativa alle autorizzazioni per la ditta Send srl di Settecà (si tratta di un caso che fece discutere e che fa ancora discutere oggi).

URBANISTICA ED ECOLOGIA. Ma è l'urbanistica (con gli ambiti collegati ovvero esprori, indagini topografiche e altro) a fare la parte del leone degli "omissis". Sia per quanto riguarda i nomi sia gli incarichi. Addirittura nel 2007 la giunta dell'ex sindaco Enrico Huellweck affida una consulenza per un non precisato «piano di comunicazione» relativo al settore dell'urbanistica. L'ingaggio avviene a beneficio del milanese Giovanni Padula e del vicentino Cristiano Seganfreddo, quest'ultimo molto attivo anche sul versante delel collaborazioni con l'attuale giunta di centrosinistra. Sempre sul versante urbanistico e sempre nel 2007 la vecchia giunta assegna un incarico per la realizzazione di un documentario al film-maker Corrado Ceron e con lui a Giovanni Santonocito e a Miriam Marini. Gli importi non sono indicati.

Contestualmente l'amministrazione non indica una serie di incarichi esterni nel ramo ecologia. Alcuni tra questi riguardano la spinosa presenza di inquinanti nell'area ex Zambon e nel comparto del cosiddetto "PP6 Nuovo Teatro".

LA GIUNTA. L'esecutivo municipale comunque fa sapere che non è rimasto con le mani in mano. «Nessuno ha intenzione di perder tempo - sottolinea l'assessore ai servizi informatici e al personale Tommaso Ruggeri - tanto che di recente sono stati sollecitati tutti gli uffici competenti. A brevissimo quegli elenchhi saranno aggiornati secondo il dettato della legge. La trasparenza - aggiunge l'assessore - è un nostro valore. Va ache detto che in questi mesi molte delle nostre risorse sono state assorbite dall'alluvione. Ma ribadisco che ci stiamo muovendo rapidamente».

Marco Milioni
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mercoledì 15 dicembre 2010

Viva i piccoli imprenditori. Se non pensano solo ai quattrini

Orgogliosi, questi veneti alluvionati. Ma più ancora: autonomi di fatto. E di conseguenza con poca o punta fiducia nello Stato erogatore di aiuti. Le richieste di risarcimento da privati e imprese sono drasticamente inferiori alle stime dei anni: da Vicenza e dalla vicina Caldogno, fra le più colpite dall’esondazione dei fiumi dell’1 novembre scorso, le domande di rimborso arrivano a 145 milioni di euro in totale. Cioè meno 130 milioni rispetto al calcolo fatto dalle autorità. Questo dato, macroscopico, basta a far capire cosa sta facendo risollevare le popolazioni sommerse da un disastro provocato, a monte, dal troppo cemento di una regione iper-sviluppata come il Veneto: la cooperazione e il senso di comunità.

Parrà strano, ma è così. I soldatini del lavoro come religione, gli alfieri del produttivismo spinto, i giapponesi d’Italia, quando c’è da aiutare il proprio vicino, diventano solidali come pochi. Chi scrive ha visto all’opera non solo i volontari (molti dei quali giovani e giovanissimi) animati dall’orrore dell’emergenza, ma il fiorire di una catena di solidarietà che ha incluso imprenditori, associazioni, e soprattutto singoli cittadini e famiglie, usciti di casa a spalar fango e a donare, oltre al proprio tempo, anche oggetti e beni perduti dal compaesano. Un’azienda di mobili, per dire, ha regalato venti cucine ad altrettante case rimaste allagate. La Caritas ha staccato assegni da decine di migliaia di euro. I musicisti hanno allestito concerti di beneficenza. La rete di amicizie e conoscenze si è attivata per rifornire gli alluvionati di quanto mancavano nell’immediato. Le contrade sono tornate ad essere borghi in cui il dirimpettaio non è più un estraneo che a malapena si saluta, ma la faccia conosciuta con cui si condivide il proprio spazio domestico. Cifre e statistiche non ce ne sono, per misurare ciò che non è misurabile: il bene della prossimità.

Sono schizofrenici, questi veneti? Ossessionati dalla ricchezza materiale da un lato, e capaci di una socialità spontanea e generosa dall’altro? Sicuramente la mitologia del padroncino, fondata sul fai-da-te, sulla scalata individuale al benessere economico, ha dato i suoi colpi di piccone e di bancomat all’umanità di genti contadine, povere e dignitose, che al fondo conservano ancora il decoro della buona amministrazione risalente alla Serenissima Repubblica di Venezia. Ciò nonostante lo ribadiamo: è stata la corsa all’oro dell’ultimo quarantennio ad aver stravolto il paesaggio, naturale e interiore, di una regione oberata di capannoni vuoti, centri commerciali pieni e urbanizzazioni selvagge. I colpevoli sono gli stessi, loro: i veneti. Epperò proprio quel fai-da-te, quell’impulso collettivo a costruirsi con le proprie mani il futuro, quel fastidio per le regole di Roma, quell’attaccamento a ciò che si ha perché frutto di ciò che si è, quell’impasto di semi-legalità, di egoismo e di localismo (l’evasione fiscale come rivendicazione anti-statale), tutto questo ha come rovescio della medaglia una società che, se può, fa volentieri a meno dello Stato centrale. Senza vittimismi, senza piagnistei.

C’è del buono, in questo autonomismo deturpato dal troppo amore per gli schei. Allora proviamoci, a lavorare sul concetto, così vissuto e per nulla teorico, della comunità che si identifica nell’imprenditorialità diffusa. Perché le piccole imprese, anima di questo pezzo d’Italia che si sente così poco italiano, corrisponderebbero a quell’economia a misura d’uomo di cui c’è bisogno. Ma siamo ancora alla preistoria di un’altra possibile storia. Finchè i laboriosi padroncini veneti resteranno avvinti al mito della competizione globale (la provincia di Vicenza esporta più della Grecia pre-crisi), il ritorno al sano locale resterà una bandiera propagandistica in mano alla politica strumentalizzatrice. Non è questione, si capisce, di volontà. E’ l’essere inseriti a pieno regime negli scambi di commercio mondiali ad ostacolare una riconversione delle piccole e medie aziende su consumi non drogati dalla sovrapproduzione. E così si giunge al nodo cruciale che ci tiene tutti schiavi: fin quando il sistema economico globalizzato non sarà imploso per effetto di una decrescita inevitabile, nessuna alternativa di società più umana sarà realisticamente pensabile. Tuttavia, i germi di una vita nuova sono già presenti. I piccoli imprenditori veneti, con le loro contraddizioni, stanno lì a dimostrarlo.

Alessio Mannino
da: www.ilribelle del 15 dicembre 2010
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lunedì 13 dicembre 2010

Calearo un, due, tre

Ebbene sì: nel suk parlamentare, a svettare è lui, il deputato eletto col Pd, poi passato all’Api (per chi non lo sapesse: il micro-partito di Rutelli) e ora nel gruppo misto, Massimo Calearo Ciman. Un raro esempio di coerenza, onestà e bassezza morale. Com’è possibile? Possibilissimo. L’industriale vicentino, ex presidente di Federmeccanica ai tempi della Confindustria di Montezemolo, ha il pregio di non nascondere dietro ipocrite conversioni dell’ultima ora le motivazioni che lo trattengono in politica e che lo hanno portato via via in braccio al blocco berlusconiano: nessuna idea, solo fedeltà di casta. Quella confindustriale.


C’è la fiducia al cosiddetto governo, martedì 14 dicembre. Fra i banchi del parlamento si è scatenato il calciomercato. Pare che con 500 mila euro si possa fare l’affare e portarsi a casa un onorevole o un senatore. Antonio Razzi dell’Italia dei Valori, «con sofferta decisione» esce dal partito di Di Pietro e voterà a favore di Berlusconi, odiato come il male assoluto fino al giorno prima. Sentiamo Calearo, bocca della verità: «A me personalmente nessuno ha mai prospettato niente, del resto non ne avrei bisogno. Ad ogni modo non ho problemi a dire che umanamente non condanno uno che, prendendo un certo stipendio ed avendo certi impegni economici, ora che non esistono più le ideologie fisse accetta una ricandidatura ed un aiutino. In certe condizioni è difficile dire di no, soprattutto se dalla tua parte ti hanno fatto capire che non ti ricandideranno». Ricco di suo, effettivamente mezzo milione di euro, che pure non gli farà certo schifo, non deve essere la svolta della vita. Ma il punto, signora mia, è che non ci sono più i valori di una volta: le “ideologie fisse”, come le chiama Massimo il pragmatico.

E allora l’unico metro di misura per un pover’uomo che, metti caso, si sia progettato un futuro grazie alla politica diventa l’incubo della ricandidatura: mi ricandideranno o no? Se la risposta è negativa o incerta, nulla di male a saltare il fosso. Con una buona uscita nell’ordine di centinaia di migliaia di euro, poi, sarebbe da fessi rifiutare - fa intendere neanche troppo velatamente il realista Calearo.
Però anche lui: transitare da un partito all’altro come si cambia il tram… Non si fa. Il padroncino del Nordest, lo diciamo a ragion veduta perché abbiamo avuto l’occasione di conoscerlo, ragiona da padroncino del Nordest: logica lineare con solidi e neri paraocchi che gli rendono la vista impermeabile alle critiche, e che tuttavia gli fanno cogliere la realtà secondo una visuale inattaccabile: esiste solo il suo punto di vista, il resto non conta.

Lo spiega bene lui stesso: «Negli ultimi due anni si è verificato un completo ribaltone. Il Pd guardava a Obama e adesso vede Vendola. Il Pdl ora si trova spaccato da Futuro e Libertà. Quando cambiano così radicalmente le condizioni, non puoi accusare nessuno di essere una bandiera al vento. Prendiamo proprio il mio caso. Una sera vengo invitato da Veltroni ad addormentarmi con il sogno di un partito di governo che combatte la lotta di classe e la mattina dopo mi sveglio con Bersani che ci porta a Cuba e alimenta l’odio di classe». Capito? Lui in testa si era fatto il film di una forza all’americana, un remake italiano di Obama, e Veltroni per lui ne era il regista, produttore e garante. Non importa che sapesse benissimo già allora, nel 2008, che nel Pd c’erano anche D’Alema e il suo ventriloquo Bersani, con quel che resta dell’apparato saldamente nelle loro mani. Non importa che Veltroni non c’entrasse un fico secco con Obama, se non per il gusto di Walter per il buonismo generico che scalda i cuori e prepara la vaselina (è molto più Obama un Vendola, col suo millenarismo parolaio).

E non importa che di Bersani tutto si possa dire tranne che si porti nel sangue tracce di veterocomunismo alla cubana (ché poi anche nell’isola di Castro il castrismo sta scolorendo anno dopo anno, ma Calearo evidentemente legge solo la politica interna e l’economia, sempre che legga i giornali).
 E arriviamo al dunque: il problema è che «si continua a guardare alle ideologie, invece che alla situazione economica del Paese. E le colpe non le ha Berlusconi, ma l’opposizione che non c’è». Le ideologie, queste maledette finzioni che non aiutano le imprese. Perché la bussola di Calearo è regolata solo da loro, dagli imprenditori, da quelli come lui. Il resto della popolazione? Non pervenuta. «Passerò anch’io per il centro della politica, dove porterò con me i suggerimenti dei tanti industriali metalmeccanici che mi fanno sempre sentire a casa, dovunque li trovi. Sono loro i miei consiglieri, non certo i politici. I parlamentari sono colleghi miei a tempo, gli imprenditori sono miei colleghi a vita».

Questo è parlar chiaro. Lo diciamo senza sarcasmo: Calearo dice pane al pane e vino al vino. Per lui la politica è solo la continuazione degli affari con altri mezzi. E tutto ciò che ostacola questa visione, gretta e corporativa ma sincera, è “ideologia”. I “suggerimenti” di cui si farà portatore li immaginiamo già: lobby, lobby e ancora lobby per applicare i diktat indiscutibili del mercato e dei suoi padroni (e dei padroncini come lui, che invece di separare l’interesse delle piccole e medie aziende da quello della grande industria assistita e grassatrice, come sarebbe giusto, la adula e se ne mette a rimorchio). Bravo Calearo: almeno non ti atteggi a uomo che ha un’idea. Non ne hai una che sia una. Ammetterlo con candore ti fa tristemente onore.

Alessio Mannino
da www.ilribelle.com del giorno 10 dicembre 2010
riportato su lasberla.net del giorno 11 dicembre 2010
Tutti i virgolettati sono ripresi dall’intervista apparsa sul Corriere del Veneto, «Sognavo Barack Obama ora sto con Berlusconi. Non lo sfiducio», 8 dicembre 2010.

venerdì 3 dicembre 2010

Monicelli, esempio di vita

Su Mario Monicelli, il maestro Monicelli (lui detestava essere chiamato così), il genio della commedia Monicelli, il regista Monicelli dirà da par suo il nostro Menconi, ben più ferrato di me riguardo la settima arte. Io mi limito, senza pretese di farne un ritratto vero e proprio, a ricordare il giovane vecchio Monicelli per quello che mi ha impressionato di lui al di là della sfolgorante carriera cinematografica: l’esempio umano. Leggendo le interviste degli ultimi anni, non me ne perdevo una, l’uomo che ne usciva mi è sempre parso non soltanto, naturalmente, di grande cultura seppur senza sfoggio né erudizione, di levatura morale sopra alla media e di esperienza temprata da novantacinque anni di conoscenza degli italiani (questo popolo “pavido”, che pure in passato, come individui singoli, possedeva una sua “dignità” ma che nel suo carattere nazionale è inguaribilmente un popolo di “servi”: come non accostare questo giudizio così duro e amaro di un comunista mai pentito con quello, identico, di un anarco-conservatore come Montanelli?).

Oltre al santino, si percepiva altro. Questo “altro” che lui ci ha sbattuto tragicamente in faccia l’altro ieri sera gettandosi dal quinto piano dell’ospedale in cui, malato terminale, era ricoverato: la malinconia. Era un grande malinconico, Monicelli. Nell’ultimo scorcio della sua esistenza, malandato in salute e privato del mestiere che era stato tutta la sua vita, poteva essere compatito, banalmente, come un depresso, un depresso senile. Eppure, nella sua opera di dissacrazione dell’italiano, ideal-tipo cialtrone e generoso, perdente e guascone, tragico e comico insieme, a noi sembra di aver scorto un suo pessimismo di fondo. Quel pessimismo caratteristico delle anime tormentate perché sensibili e refrattarie alle convenzioni, anche di buon ordine psicologico e morale, perché troppo lucido, troppo intelligente, troppo spietato con sé stesso e il mondo. Un’amarezza connaturata che fatalmente, da italiano qual era anche lui, si convertiva in umorismo, nel rovesciare il serio in faceto, nel buttarla sul ridere. Ma sempre con un’inquietudine perenne che bruciava dentro.

Aveva le sue idee, Monicelli, ed erano e sono rimaste fino all’ultimo di sinistra. Ma non fu mai, con quella sua allergia alla retorica e al doverismo, un intellettuale “impegnato” (lo era a modo suo) né tanto meno “organico”, un trinariciuto, un sensale di partito. Anche qui: troppo individualista e libero, troppo arso dal senso di effimero e dal gusto per l’ironia, per prendersi troppo sul serio. Gli piaceva la solidarietà e lo spirito di consorteria che fino agli anni ’70 univa registi, attori e lavoratori dello spettacolo. Ma più con l’animo dei compagni di scuola che vanno a bere insieme dopo la lezione che non con quello di casta e di fazione, magari ideologica. Amava la commedia perché viveva la vita come una dolorosa commedia. E quando, di recente, invitava gli studenti a “ribellarsi, protestare, sovvertire”, quando sognava, lui ultranoventenne ma mai domo, una “rivoluzione” che spazzasse via la mediocrità di questa brutta Italia, quando liquidava il tempo presente con giudizi caustici e senza possibilità d’appello, in lui parlava il suo lato nero che trovava la sublimazione proprio nella risata catartica e liberatoria. Ma non consolatoria né, come potrebbe fare un borghese piccolo piccolo che Monicelli aborriva, assolutoria. Tanto è vero che era capace di pensare, da ribelle radicale, che «la speranza è una trappola dei padroni». Chi vive sperando, insomma, muore schiavo. Monicelli ci ha dato l’ultima lezione sottraendosi alla fine misera che lo aspettava e che evidentemente lo atterriva: intubato, irto d’aghi e trattato come un vegetale. Ha avuto il coraggio di suicidarsi, non dandola vita alla morte. Ultimo ciak di un uomo che amava troppo la vita per non disprezzarla. Perdonate l’elogio funebre, ma se lo merita, il Monicelli senza illusioni e senza paura.

Alessio Mannino
da www.ilribelle.com del giorno 1 dicembre 2010
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